Teatro

Una Tana interiore

Una Tana interiore

Difficile trovare una aderenza simbiotica più importante, in uno spettacolo, come quella fra location e testo che la regia di Francesco Saponaro ha ottenuto ambientando La tana di Franz Kafka nelle Catacombe di San Gennaro.
Cunicoli mentali che si irraggiano fra i corridoi del vestibolo del II secolo, soste dell'angosciosa ricerca della costruzione più che perfetta fra gli arcosoli, e tutto questo, ed è forse anche l'effetto più sorprendente, conservando un'atmosfera che perfino dirada la claustrofobia della narrazione di questo strano e non definito animaletto: lo si immagini come meglio si vuole, mentre dedica chissà quanta parte della sua vita al sommo scopo di costruire la sua tana.

Non una tana qualunque, però: La tana, quella che dovrà diventare rifugio inespugnabile, definitivo luogo per antonomasia che gli assicuri la sicurezza assoluta. Per arrivare a tanto, scava indefinitamente ed erige una complessa struttura fatta di labirinti, passaggi segreti, piazzeforti, botole… tutto inutile, come ben si può immaginare, quando una ricerca così spasmodica nasconde invece l'inquietudine della vera soglia del pericolo, quella sua interiore, che rende inutili le strenue difese e tecniche di controllo esteriore, per quanto sofisticate ("Non è detto che colui al quale faccio venir la voglia d'inseguirmi sia un nemico vero e proprio, può essere benissimo un innocente qualunque [...] Invece non viene nessuno e io devo affidarmi a me stesso [...], sembra quasi che io stesso sia il nemico in attesa della buona occasione di irrompere con buon esito.", dal testo di Kafka).

La drammaturgia di Gianni Garrera sceglie momenti di scambio instabile che si dipanano fra tre ambienti diversi delle aree cimiteriali ctonie di Capodimonte, e le luci scelte, soprattutto nella parte centrale e finale, suggeriscono stati d'animo che fanno propendere per un'attenzione estetica all'animo del lavorìo sotterraneo, piuttosto che alla sua irrefrenabile angoscia. Scelta che aumenta il legame con il genius loci, e con quel modo assai particolare che aveva il popolo napoletano di vivere l’ipogeo e l’aldilà.

In questo quadro, una Mascia Musy irreale, paradossale e sempre sotto il pericolo di qualcosa di incombente, interpreta ottimamente questo animale che rifiuta di rendersi conto che il Nemico non è fuori, ma dentro di lui, e per un pomeriggio esalta, abbellisce e fa comprendere il ricordo di quando questo sito costituiva senza ombra di dubbio, una tappa obbligata dei visitatori del Grand Tour.